Il seguente post vuole essere la continuazione di un dialogo iniziato con il pubblico durante le conferenze di Novembre 2009 (on line diviso in parte 1 - parte 2 - parte 3 e parte 4) e del 24 Aprile 2010, organizzata dal C.I.R.S. Genova (non ancora on line), con la speranza di dare una continuità di dialogo che vada oltre gli incontri e si apra anche ad altri soggetti, assenti alle suddette manifestazioni.
Le seguenti parole si riferiscono sopratttuto in merito all'incontro del 24 u.s.
Buona lettura e l'invito a partecipare a questo blog con i vostri interventi.
L'incontro organizzato dal CIRS, sull'Identità di
Genere, a Genova, il 24 aprile u.s. e che mi ha vista come relatrice della
mattinata del convegno, è stata sicuramente un'esperienza nuova e arricchente
per me, transgender, lesbica, presidente di Crisalide Pangender, invalida civile
e chissà quante altre cose dovrei aggiungere per dare anche una vaga idea
identitaria di me stessa.
Fondamentalmente, la distinzione più evidente
rispetto ad analoghe esperienze del passato, era nel trovarmi - io non "operatrice"
della psiche - in mezzo ad un pubblico totalmente o quasi tale.
Una distinzione che ha fatto del mio personale
vissuto dell'evento, una giornata originale, nuova e da ricordare. Non nuova
io al ruolo di "relatrice", ma nuovo il "pubblico attivo" con cui mi
relazionavo.
Non posso che ringraziare Roberto Todella e Jole
Baldaro Verde in primis, per lo spazio "non marginale" offertomi, non tanto come
"testimone d'un vissuto", quanto come "esperta", perché soggetto
autocosciente di sé e quindi "portavoce" di una possibile visione delle Identità
di Genere, nata in seno a chi ha vissuto la contraddizione tra sesso genetico e
Identità di Genere discordanti fra loro.
Una novità che il CIRS ha saputo mettere in pratica
con l'incontro; tentativo che anche io avevo pensato (fallendo) di realizzare qualche anno attraverso la pubblicazione di un libro multiautoriale, nel quale le visioni delle Identità di Genere si
confrontavano tra chi le studiava e chi le vivveva (e, ovviamente, le studiava
anche poiché non basta "essere" qualcosa per conoscerla, se non ci si interroga su di sè e confronta con l'altro da sé).
Una novità che auspico possa presto riflettersi
anche nella produzione di documenti, libri ed altre forme di comunicazione, dove
i testi rappresentino il "contrappunto" delle due esperienze di partenza e in
cui possa diventare il terreno fertile per nuovi frutti e comprensioni sempre
più approfondite della meravigliosa complessità dell'anima umana.
Meravigliosa tanto più "cosciente di sé" perché
ogni potenzialità e complessità può anche diventare "terribile" se mal compresa
o fraintesa e talvolta negata, obliata, se non rinnegata, rimossa ed infine
stigmatizzata, discriminata.
Mi è spiaciuto lasciare l'aula prima della fine dei
lavori ma tra i miei aspetti identitari che è giusto siano consociuti per
spiegare alcune mie particolarità, stanno proprio nella voce "invalida". Sono
andata via prima semplicemente perché energeticamente esausta e quindi
fisicamente dolorante. Dolente e dolorante, per usare due "quasi sinonimi" usati però, il primo prevalentemente per "l'anima" ed il secondo per il "corpo"
Sebbene il CIRS mi abbia offerto molto tempo per
confrotnarmi con tutt* voi (e l'asterisco sta per il rifiuto del "maschile
neutro", almeno nello scritto), ci sono molte cose che sono rimaste nel cuore e
non dette. Almeno sicuramente così è successo a me e immagino anche a qualcun*
di voi.
Per questo scrivo queste righe. Per "tirar fuori"
l'inespresso, o meglio, quella parte di "inespresso" che più spinge perché vuole
uscire fuori.
Per questo le scrivo in un blog, al fine di
consentire a chi c'era analoga possibilità.
Per questo ma anche per dare l'opportunità di
mantenere, come le briciole di Hansel e Gretel, un segno che possa, se lo si
vuole, continuare a comunicare.
Tornando a casa, dormendoci sopra, stamattina mi
sono resa conto che una cosa su tutte mi è rimasta "in gola". E questa cosa
nasce dal vissuto personale, dalla domanda più personale che mi è stata rivolta
e non quindi dall'astrazione, pur indispensabile, della narrazione collettiva di
percorsi personali e sociali.
Nasce da un insight che mi ha "colpita" stamattina mentre Milky si avvicinava a me,
portando in bocca il suo osso di corde intrecciate, per offrirsi al gioco
mattutino preferito.
L'ho pensato in relazione alla domanda che mi è
stata posta sulla maternità. Su quanto questa mi fosse mancata nella vita.e poi
sul se e sul come ho potuto esprimere questa tipologia di sentimento nella realtà della
mia vita senza figli.
L'ho pensato anche in relazione interconnessa con
l'affermazione che per sentirsi ed essere donna, non è necessario rinnegare il
proprio maschile interiore.
Tenuto conto che Milky ha due "mamme" e nessun "papà" mi è venuto in mente lo stereotipo (molto
comune nella realtà) dei ruoli delle madri e dei padri (senza virgolette, questa votla). Una delle distinzioni
più frequenti è proprio il fatto che la madre accudisce i figli mentre il padre -
specie con i più piccoli - gioca ed attraverso il gioco, condivide e passa
una serie di contenuti psichici (e culturali) di non poco conto.
Il mio "maschile", cresciuto nell'infanzia libero
di giocare e non costretto a pseudogiochi femminili dove il fil rouge è sempre
la preparazione al ruolo di madre/donna di casa... Il mio maschile che quindi,
ovviamente, preferiva il calcio o anche più semplicemente il gioco del pampano,
all'interpretazione anticipata dei ruoli che ti aspetteranno da adulto*, tipico dei giochi "per bambine", ha
mantenuto una capacità anche dentro il mio femminile prevalente, di continuare a
"giocare", ad apprezzarne il valore liberatorio, purificante e catartico che
purtroppo invece vedo raramente nelle mamme, ma, in genere, nelle
donne.
Alcune civiltà che definiamo (e sono) barbare,
costringono le donne all'abrasione della clitoride fin dall'infanzia per
abituarle alla fedeltà e ad una sessualità passiva al servizio del proprio uomo.
Da noi ci si è accontentati (almeno fino a pochi anni fa) ad abradere dal
cervello delle bambine la capacità piena del significato del gioco.
Certo c'erano sicuramente bambine ribelli che si
divertivano a giocare ai giochi veri con "noi maschi" (e io, in realtà ero
proprio uno di queste), ma erano minoranzze chiamate "maschiacci".
Il gioco se non è esplorazione libera da
condizionamenti di ruoli (di non gioco) adulti, non è vero gioco. Imititare un
adulto calciatore che "gioca" al calcio" ha valori profondamenti diversi
dall'imitare il "banchiere" o la "mamma" o la "casalinga" o anche la donna
d'affari".*
Ho quindi pensato quanto il mio maschile VISSUTO
nell'infanzia, o per meglio dire, il minor condizionamento di cui i bambini
maschi godono, sia stato un dono enorme per la mia identità
femminile.
Donne madri: trovate la voglia ed il tempo di
giocare con i vostri figli... e non dico "fateli giocare" ma "giocate con loro"
divertendovi con loro, così come fanno spesso i vostri compagni che a volte
magari guardate con occhi di "superiorità", giudicandoli eterni
bambini.
E' vero che gli uomini abusano spesso di questo
privilegio infantile da farlo diventare un grave difetto da adulti ma non è la
rimozione del gioco la soluzione alla "pseudo sindrome di Peter Pan" di cui
sembrano - agli occhi di molte donne - soffrire i propri compagni.
Semmai è nel riposizionare nella scala dei valori
questo fondamentale momento di liberazione umana, non nella negazione (specie se
nasce da una rimozione di tutta una vita, anche infantile).
Io, immaginandomi madre e donna eterosessuale, mai
delegherei a mio marito il piacere (ancor prima che ruolo) di giocare con i miei
figli. Oh, li accudirei forse un po' meno, con qualche "pezza al culo" in più,
ma giocherei con loro fin dai primissimi giorni, mesi di vita. In questo sarei
molto diversa dall'immagine media della mamma tradizionale italiana (ma, per
questo aspetto, non solo italiana, credo). Peraltro la mia compagna, pur più giovane di me, ma "nata donna" gioca meno di quanto faccia io... Un caso non fa statistica, però....
Non tanto il "mio maschile interiore" quanto il
come è consentito crescere a chi nasce maschio, dà al mio maschile interiore
connotati rari tra le donne nate tali.
La vergogna dei genitali, l'approccio spesso
straziante con i primi approcci alla sessualità, dove istinto ed educazione
stridono pesantemetne fra loro, il coraggio (che c'è quando si ha paura,
ovviamente) di essere assertiv*, sono tutti retaggi della mia educazione al
maschile vissuta nell'infanzia che mi rendono più facile esprimere quella mia
parte di maschile interiore, per quanto piccola, liberamente.
E' evidente che sto generalizzando e che quindi si
possono trovare eccezioni ad ognuna delle cose che ho detto, ma forse solo in
questi ultimissimi anni, i ruoli infantili femminili si sono aperti un poco di
più senza far ricadere la bambina nel ruolo di "maschiaccio" (che è un giudizio
oltre che un ruolo e che è gradito solo da quelle bambine in cui il proprio
maschile interiore è realmente forte, quindi gradito ad una estrema minoranza di
bambine).
Anche per queste ragioni, nel documentario "O sei uomo o sei donna. Chiaro?" mi sono definita "donna con uno specifico diverso da chi donna è
nata" o qualcosa del genere... Perché senza un'educazione al maschile io sarei
diventata una ragazza infinitamente inibita e timida, perché ERO un maschietto
infinitamente timido e solo le pressioni a non esserlo (perché «i maschi devono
sapersi affermare nelle relazioni con gli altri bambini») mi hanno dato la voglia
di cercare degli strumenti per vincere la timidezza... So che quando dico che
sono una timida (d'origine) la gente si mette a ridere perché sono considerata -
come minimo - una faccia tosta, se non peggio... e l'appellativo di
"caterpiller" che mi sono guadagnata solo dopo la transizione, quindi solo come
donna, è stato per me un enorme complimento che non mi ha scosso il mio senso
d'identità femminile, anzi l'ha reso persino più... come dire...
"figo..."?
Quel che quindi non ho fatto, durante l'incontro, è
un appello alle donne a reimpadronirsi del gioco (qualora non abbiano saputo
ribellarsi già nell'infanzia)... con i figli, con un cagnolino, un gatto...
Anche ovviamente con gli adulti ma c'è un ma. Il gioco con gli adulti, tra
adulti non ha quasi mai una qualità del gioco che puoi invece vivere con i
bambini o in subordine, con quegli animali domestici che, proprio perchè
addomesticati, restano un po' cuccioli per tutta la vita, con un'intelligenza
paragonabile a quella di un bambino di 4-6 mesi di vita. Mi riferisco
all'elasticità delle regole e alla capacità di adattamento immediato ad ogni
improvvisa variazione di "impostazione", di fantasia che genera il gioco stesso.
Lo spazio libero che ha regole estremamente semplici e costantemente mutabili...
Quel gioco e solo quel gioco è una ricchezza che - da donna che ama in tutti i
sensi le donne - desidererei si diffondesse sempre più, e non più come
"stereotipo maschile" ma come un femminile liberato dai condizionamenti
immediatamente post natali cui le "bimbe" sono sottoposte.
Certo ci sono anche orribili condizionamenti
imposti ai maschi*. Ma questo è un altro argomento su cui, magari altra volta, mi
permetterò di condividere con voi.
Come di tante altre cose "non dette" e che
differenziano maschi e femmine e, addirittura, se predisposti, differenziano una
stessa persona, uno stesso corpo, a seconda della prevalenza delle "sostanze
informazionali" prevalenti che "giocano" sull'identità di genere un ruolo (in
primis, ovviamente, gli ormoni sessuali).
Grazie.
Mirella Izzo
* Più volte ho, nel testo, usato l'asterisco per richiamare a queste righe che sto aggiungendo in data 30. Esiste uno stereotipo imposto ai bambini maschi molto importante e con conseguenze enormi. Non ne ho parlato perché richiederebbe un "capitolo" a parte d'un eventuale libro: mi riferisco al gioco della guerra, dei soldatini e di tutti quei giochi che hanno a che fare con il "togliere la vita" violentemente o il rischio di perderla; che hanno a che fare con l'aggressività testosteronica (che arriverà più tardi in modo esplosivo, con l'adolescenza) e la sua manifestazione oppure controllo (dipende anche da "come" si gioca, come si viene indotti a giocare "ste robe che equivalgono per certi versi al gioco della mamma. Con una differenza: le mamme ci sono sempre, le guerre no. E non è una differenza da sottovalutare, nelle sue conseguenze.
* Più volte ho, nel testo, usato l'asterisco per richiamare a queste righe che sto aggiungendo in data 30. Esiste uno stereotipo imposto ai bambini maschi molto importante e con conseguenze enormi. Non ne ho parlato perché richiederebbe un "capitolo" a parte d'un eventuale libro: mi riferisco al gioco della guerra, dei soldatini e di tutti quei giochi che hanno a che fare con il "togliere la vita" violentemente o il rischio di perderla; che hanno a che fare con l'aggressività testosteronica (che arriverà più tardi in modo esplosivo, con l'adolescenza) e la sua manifestazione oppure controllo (dipende anche da "come" si gioca, come si viene indotti a giocare "ste robe che equivalgono per certi versi al gioco della mamma. Con una differenza: le mamme ci sono sempre, le guerre no. E non è una differenza da sottovalutare, nelle sue conseguenze.