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martedì 27 aprile 2010

Congresso 24 aprile 2010 - Permanenze


Il seguente post vuole essere la continuazione di un dialogo iniziato con il pubblico durante le conferenze di Novembre 2009 (on line diviso in parte 1 - parte 2 - parte 3 e parte 4) e del 24 Aprile 2010, organizzata dal C.I.R.S. Genova (non ancora on line), con la speranza di dare una continuità di dialogo che vada oltre gli incontri e si apra anche ad altri soggetti, assenti alle suddette manifestazioni.
Le seguenti parole si riferiscono sopratttuto in merito all'incontro del 24 u.s.
Buona lettura e l'invito a partecipare a questo blog con i vostri interventi.
L'incontro organizzato dal CIRS, sull'Identità di Genere, a Genova, il 24 aprile u.s. e che mi ha vista come relatrice della mattinata del convegno, è stata sicuramente un'esperienza nuova e arricchente per me, transgender, lesbica, presidente di Crisalide Pangender, invalida civile e chissà quante altre cose dovrei aggiungere per dare anche una vaga idea identitaria di me stessa.
Fondamentalmente, la distinzione più evidente rispetto ad analoghe esperienze del passato, era nel trovarmi - io non "operatrice" della psiche - in mezzo ad un pubblico totalmente o quasi tale.
Una distinzione che ha fatto del mio personale vissuto dell'evento, una giornata originale, nuova e da ricordare. Non nuova io al ruolo di "relatrice", ma nuovo il "pubblico attivo" con cui mi relazionavo.
Non posso che ringraziare Roberto Todella e Jole Baldaro Verde in primis, per lo spazio "non marginale" offertomi, non tanto come "testimone d'un vissuto", quanto come "esperta", perché soggetto autocosciente di sé e quindi "portavoce" di una possibile visione delle Identità di Genere, nata in seno a chi ha vissuto la contraddizione tra sesso genetico e Identità di Genere discordanti fra loro.
Una novità che il CIRS ha saputo mettere in pratica con l'incontro; tentativo che anche io avevo pensato (fallendo) di realizzare qualche anno attraverso la pubblicazione di un libro multiautoriale, nel quale le visioni delle Identità di Genere si confrontavano tra chi le studiava e chi le vivveva (e, ovviamente, le studiava anche poiché non basta "essere" qualcosa per conoscerla, se non ci si interroga su di sè e confronta con l'altro da sé).
Una novità che auspico possa presto riflettersi anche nella produzione di documenti, libri ed altre forme di comunicazione, dove i testi rappresentino il "contrappunto" delle due esperienze di partenza  e in cui possa diventare il terreno fertile per nuovi frutti e comprensioni sempre più approfondite della meravigliosa complessità dell'anima umana.
Meravigliosa tanto più "cosciente di sé" perché ogni potenzialità e complessità può anche diventare "terribile" se mal compresa o fraintesa e talvolta negata, obliata, se non rinnegata, rimossa ed infine stigmatizzata, discriminata.
Mi è spiaciuto lasciare l'aula prima della fine dei lavori ma tra i miei aspetti identitari che è giusto siano consociuti per spiegare alcune mie particolarità, stanno proprio nella voce "invalida". Sono andata via prima semplicemente perché energeticamente esausta e quindi fisicamente dolorante. Dolente e dolorante, per usare due "quasi sinonimi" usati però, il primo prevalentemente per "l'anima" ed il secondo per il "corpo"
Sebbene il CIRS mi abbia offerto molto tempo per confrotnarmi con tutt* voi (e l'asterisco sta per il rifiuto del "maschile neutro", almeno nello scritto), ci sono molte cose che sono rimaste nel cuore e non dette. Almeno sicuramente così è successo a me e immagino anche a qualcun* di voi.
Per questo scrivo queste righe. Per "tirar fuori" l'inespresso, o meglio, quella parte di "inespresso" che più spinge perché vuole uscire fuori.
Per questo le scrivo in un blog, al fine di consentire a chi c'era analoga possibilità.
Per questo ma anche per dare l'opportunità di mantenere, come le briciole di Hansel e Gretel, un segno che possa, se lo si vuole, continuare a comunicare.
Tornando a casa, dormendoci sopra, stamattina mi sono resa conto che una cosa su tutte mi è rimasta "in gola". E questa cosa nasce dal vissuto personale, dalla domanda più personale che mi è stata rivolta e non quindi dall'astrazione, pur indispensabile, della narrazione collettiva di percorsi personali e sociali.
Nasce da un insight che mi ha "colpita" stamattina mentre Milky si avvicinava a me, portando in bocca il suo osso di corde intrecciate, per offrirsi al gioco mattutino preferito.
L'ho pensato in relazione alla domanda che mi è stata posta sulla maternità. Su quanto questa mi fosse mancata nella vita.e poi sul se e sul come ho potuto esprimere questa  tipologia di sentimento nella realtà della mia vita senza figli.
L'ho pensato anche in relazione interconnessa con l'affermazione che per sentirsi ed essere donna, non è necessario rinnegare il proprio maschile interiore.
Tenuto conto che Milky ha due "mamme" e nessun "papà" mi è venuto in mente lo stereotipo (molto comune nella realtà) dei ruoli delle madri e dei padri (senza virgolette, questa votla). Una delle distinzioni più frequenti è proprio il fatto che la madre accudisce i figli mentre il padre - specie con i più piccoli - gioca ed attraverso il gioco, condivide e passa una serie di contenuti psichici (e culturali) di non poco conto.
Il mio "maschile", cresciuto nell'infanzia libero di giocare e non costretto a pseudogiochi femminili dove il  fil rouge è sempre la preparazione al ruolo di madre/donna di casa... Il mio maschile che quindi, ovviamente, preferiva il calcio o anche più semplicemente il gioco del pampano, all'interpretazione anticipata dei ruoli che ti aspetteranno da adulto*, tipico dei giochi "per bambine", ha mantenuto una capacità anche dentro il mio femminile prevalente, di continuare a "giocare", ad apprezzarne il valore liberatorio, purificante e catartico che purtroppo invece vedo raramente nelle mamme, ma, in genere, nelle donne.
Alcune civiltà che definiamo (e sono) barbare, costringono le donne all'abrasione della clitoride fin dall'infanzia per abituarle alla fedeltà e ad una sessualità passiva al servizio del proprio uomo. Da noi ci si è accontentati (almeno fino a pochi anni fa) ad abradere dal cervello delle bambine la capacità piena del significato del gioco.
Certo c'erano sicuramente bambine ribelli che si divertivano a giocare ai giochi veri con "noi maschi" (e io, in realtà ero proprio uno di queste), ma erano minoranzze chiamate "maschiacci".
Il gioco se non è esplorazione libera da condizionamenti di ruoli (di non gioco) adulti, non è vero gioco. Imititare un adulto calciatore che "gioca" al calcio" ha valori profondamenti diversi dall'imitare il "banchiere" o la "mamma" o la "casalinga" o anche la donna d'affari".*
Ho quindi pensato quanto il mio maschile VISSUTO nell'infanzia, o per meglio dire, il minor condizionamento di cui i bambini maschi godono, sia stato un dono enorme per la mia identità femminile.
Donne madri: trovate la voglia ed il tempo di giocare con i vostri figli... e non dico "fateli giocare" ma "giocate con loro" divertendovi con loro, così come fanno spesso i vostri compagni che a volte magari guardate con occhi di "superiorità", giudicandoli eterni bambini.
E' vero che gli uomini abusano spesso di questo privilegio infantile da farlo diventare un grave difetto da adulti ma non è la rimozione del gioco la soluzione alla "pseudo sindrome di Peter Pan" di cui sembrano - agli occhi di molte donne - soffrire i propri compagni.
Semmai è nel riposizionare nella scala dei valori questo fondamentale momento di liberazione umana, non nella negazione (specie se nasce da una rimozione di tutta una vita, anche infantile).
Io, immaginandomi madre e donna eterosessuale, mai delegherei a mio marito il piacere (ancor prima che ruolo) di giocare con i miei figli. Oh, li accudirei forse un po' meno, con qualche "pezza al culo" in più, ma giocherei con loro fin dai primissimi giorni, mesi di vita. In questo sarei molto diversa dall'immagine media della mamma tradizionale italiana (ma, per questo aspetto, non solo italiana, credo). Peraltro la mia compagna, pur più giovane di me, ma "nata donna" gioca meno di quanto faccia io... Un caso non fa statistica, però....
Non tanto il "mio maschile interiore" quanto il come è consentito crescere a chi nasce maschio, dà al mio maschile interiore connotati rari tra le donne nate tali.
La vergogna dei genitali, l'approccio spesso straziante con i primi approcci alla sessualità, dove istinto ed educazione stridono pesantemetne fra loro, il coraggio (che c'è quando si ha paura, ovviamente) di essere assertiv*, sono tutti retaggi della mia educazione al maschile vissuta nell'infanzia che mi rendono più facile esprimere quella mia parte di maschile interiore, per quanto piccola, liberamente.
E' evidente che sto generalizzando e che quindi si possono trovare eccezioni ad ognuna delle cose che ho detto, ma forse solo in questi ultimissimi anni, i ruoli infantili femminili si sono aperti un poco di più senza far ricadere la bambina nel ruolo di "maschiaccio" (che è un giudizio oltre che un ruolo e che è gradito solo da quelle bambine in cui il proprio maschile interiore è realmente forte, quindi gradito ad una estrema minoranza di bambine).
Anche per queste ragioni, nel documentario "O sei uomo o sei donna. Chiaro?" mi sono definita "donna con uno specifico diverso da chi donna è nata" o qualcosa del genere... Perché senza un'educazione al maschile io sarei diventata una ragazza infinitamente inibita e timida, perché ERO un maschietto infinitamente timido e solo le pressioni a non esserlo (perché «i maschi devono sapersi affermare nelle relazioni con gli altri bambini») mi hanno dato la voglia di cercare degli strumenti per vincere la timidezza... So che quando dico che sono una timida (d'origine) la gente si mette a ridere perché sono considerata - come minimo - una faccia tosta, se non peggio... e l'appellativo di "caterpiller" che mi sono guadagnata solo dopo la transizione, quindi solo come donna, è stato per me un enorme complimento che non mi ha scosso il mio senso d'identità femminile, anzi l'ha reso persino più... come dire... "figo..."?
Quel che quindi non ho fatto, durante l'incontro, è un appello alle donne a reimpadronirsi del gioco (qualora non abbiano saputo ribellarsi già nell'infanzia)... con i figli, con un cagnolino, un gatto... Anche ovviamente con gli adulti ma c'è un ma. Il gioco con gli adulti, tra adulti non ha quasi mai una qualità del gioco che puoi invece vivere con i bambini o in subordine, con quegli animali domestici che, proprio perchè addomesticati, restano un po' cuccioli per tutta la vita, con un'intelligenza paragonabile a quella di un bambino di 4-6 mesi di vita. Mi riferisco all'elasticità delle regole e alla capacità di adattamento immediato ad ogni improvvisa variazione di "impostazione", di fantasia che genera il gioco stesso. Lo spazio libero che ha regole estremamente semplici e costantemente mutabili... Quel gioco e solo quel gioco è una ricchezza che - da donna che ama in tutti i sensi le donne - desidererei si diffondesse sempre più, e non più come "stereotipo maschile" ma come un femminile liberato dai condizionamenti immediatamente post natali cui le "bimbe" sono sottoposte.
Certo ci sono anche orribili condizionamenti imposti ai maschi*. Ma questo è un altro argomento su cui, magari altra volta, mi permetterò di condividere con voi.
Come di tante altre cose "non dette" e che differenziano maschi e femmine e, addirittura, se predisposti, differenziano una stessa persona, uno stesso corpo, a seconda della prevalenza delle "sostanze informazionali" prevalenti che "giocano" sull'identità di genere un ruolo (in primis, ovviamente, gli ormoni sessuali).
Grazie.
Mirella Izzo

* Più volte ho, nel testo, usato l'asterisco per richiamare a queste righe che sto aggiungendo in data 30. Esiste uno stereotipo imposto ai bambini maschi molto importante e con conseguenze enormi. Non ne ho parlato perché richiederebbe un "capitolo" a parte d'un eventuale libro: mi riferisco al gioco della guerra, dei soldatini e di tutti quei giochi che hanno a che fare con il "togliere la vita" violentemente o il rischio di perderla; che hanno a che fare con l'aggressività testosteronica (che arriverà più tardi in modo esplosivo, con l'adolescenza) e la sua manifestazione oppure controllo (dipende anche da "come" si gioca, come si viene indotti a giocare "ste robe che equivalgono per certi versi al gioco della mamma. Con una differenza: le mamme ci sono sempre, le guerre no. E non è una differenza da sottovalutare, nelle sue conseguenze.