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domenica 5 febbraio 2012

IO TRANSGENDER?

IO TRANSGENDER?
(contiene la poesia "Valium II (L'invidia)"

 
Oggi ho guardato un paio di trasmissioni americane sui bambini transgender e le loro famiglie. In tutti i casi questi bambini manifestavano la loro convinzione di essere bambine (o viceversa) a 4 anni, persino 3 e comportamenti tipicamente femminili già a 2 anni. In tutti i casi esprimevano un forte fastidio di avere il pene (o di avere la vagina per gli FtM). La loro consapevolezza, in tutti i casi esaminati, era ferrea al punto di confessare alla loro madre che «io non sono un ragazzo, ma una ragazza e prego Dio che domani mi faccia svegliare ragazza» (il viceversa per i casi di FtM d'ora in poi si consideri implicito). 
Ascoltare e vedere mi ha obbligata a pensare a me e alla mia infanzia, dopo tanto tempo che non lo facevo (cioè a 39 anni mentre mi sottoponevo a psicoterapia per avere la diagnosi di "Disturbo dell'Identità di Genere", per iniziare la mia terapia ormonale).
I ricordi dei miei 3 o 4 anni sono sepolti forse per sempre tranne qualche flash che emerge e che non so datare esattamente nel tempo, ma che sento antichi, i più antichi ricordi. 


Ricordo un bambino magrolino, quasi sempre triste e insoddisfatto di sé e della vita, ricordo quanto mi facesse soffrire quando mi chiamavano «grissino», ricordo quante storie facessi a mia madre ogni volta che mi voleva comprare un vestitino (ovviamente tipicamente maschile) e quanto adorassi le "macchinine" che mia nonna materna mi portava in regalo ogni volta che veniva a farci visita. Le chiamavo "brumme" le automobiline ed è stato per anni il mio gioco preferito. Fino a quando, a 10 anni, i miei non si trasferirono in un quartiere periferico dove era possibile giocare fuori casa. Prima però ricordo che giocavo a "pallone" tirando una palla contro il muro e "tuffandomi" come se io fossi il portiere e con la voce facevo sia la telecronaca, sia il tipico rumore da stadio. Ricordo che ero quasi sempre solo e che quando mia madre mi portava ai giardinetti, io regolarmente provavo, con una estrema timidezza, a fare amicizia con altri maschietti e, regolarmente, dopo un po', tornavo piangente dalla mamma perché qualcuno mi aveva picchiato o - magari - prepotentemente, non mi aveva lasciato salire sulle giostre... e ricordo molto bene cosa succedeva a quel punto: mi beccavo una sberla condita dalla frase: «cosa piangi, non sei mica una femminuccia, vergognati e vai e fatti rispettare». Non intervenne mai a mia difesa. Oggi dico per fortuna, ma allora ne soffrivo molto. "Sei un maschietto", me lo sono sentita ripetere centinaia di volte nell'infanzia. Un remind continuo ogni volta che manifestavo la mia tendenza più a piangere che a lottare o fare la lotta o usare la prepotenza o impormi con gli altri bambini. Anche per i vestiti ricordo che mia madre non mi comprava mai quelli che piacevano a me. Ora, se fossi la classica bambina transgender, dovrei aggiungere che io volevo la gonna o il vestitino. Invece no. Io volevo solo abiti che non mi facevano sentire un "ometto", quei tipici abiti che usavano negli anni '60 con pantaloncini corti, ma già con la riga maschile e gilet, giacchette-miniature degli abiti di mio padre & co. Volevo abiti da bambin*, maglioncini e jeans, roba neutra (ma vivacemente colorata) e tipicamente infantile. Invece, in molte foto, sfoggiavo persino un farfallino odioso e capelli rigidamente con la riga e "leccati". Un po' più avanti, nella prima adolescenza, avrei gradito capelli lunghi come i "capelloni" ma mio padre era chiaro: «se ti fai crescere i capelli, esci da questa casa» e poi, o mi ci picchiavo o dovevo sottostare al giorno in cui decidevano che dovevo tagliarli. Ricordo che odiavo andare in spiaggia e spogliarmi. Perché ero mascolino? No, perché ero "grissino" e mi vergognavo del mio corpo ghandiano, lungo lungo, secco secco. E mi vergognavo della nudità ed anche che con i costumi si intravvedesse la forma del pisello. Perché lo odiavo? No, perché mi faceva vergognare che si vedesse una parte del corpo così intima, dopo che mi era stata insegnata la più rigida educazione su cosa erano le cose "sporche". Ricordo anche - e sono ricordi che sono usciti dalla nebbia dopo anni di rimozione - che qualche volta, quando mia madre, ossessionata dall'ordine, usciva di casa io mi vestivo con le sue scarpe e tentavo di farlo anche con i suoi abiti, riuscendoci malamente essendo lei abbastanza in forma e io "grissino". I ricordi sono emersi, mano a mano, da uno principale: io che rimettevo a posto le cose di mamma esattamente come le avevo prese.
Stavo anche dei minuti ad osservare come prendere i suoi abiti e le sue scarpe, per ricordare come rimettere il tutto a posto. Lei vedeva sempre di tutto e non volevo che si accorgesse di questo e mi chiedesse spiegazioni. Sarebbe stata la mia vergogna più grande, insopportabile. Però non ricordo bene cosa ci facessi con quegli abiti se non la frustrazione che erano quasi tutti troppo grossi per starmi, per non scivolarci dentro e, appunto il rimetterli a posto. Inoltre ho un'immagine di me allo specchio con questi abiti raffazzonati. Quanti anni avevo? Non lo so. Io ho iniziato la pubertà a 10 anni, molto presto (anche a causa di una cosa che dirò), e se ne avessi avuti 5, 7 o 11 non ricordo. So che non avevo la barba e il mio viso era ancora infantile. So che mi piaceva ma non posso dire se era un piacere di rilassamento o accompagnato da eccitazione (sessuale). Credo però che se fosse vero il secondo caso ricorderei anche il terrore di non macchiare i suoi abiti, alla pari del rimetterli a posto esattamente in ordine. Lo credo, ma non ne sono sicura e questo mi fa pensare che siano ricordi più antichi di quanto io possa pensare.
Imparai a camminare con un po' di fatica (le scale le facevo portando solo un piede in avanti) ma le mie doti affabulatorie furono incredibilmente precoci. Non stavo mai zitto. Tanto che una vicina di casa con depressione per solitudine spesso chiedeva a mia madre di portarmi da lei per parlare e sentirmi fare i miei "ragionamenti". Ecco: io ho iniziato presto non solo a parlare ma anche a ragionare e questo fatto fu la fine del rapporto amichevole con mio padre. Lui non sopportava i ragionamenti altrui se erano diversi dai suoi. Non li sopportava in un bambino che era suo figlio. Io credevo e credo ancora che lo mettessero in difficoltà e non poteva ammetterlo di fronte ad un "pinocchietto" di 4 o 5 anni. Fu da quell'età che il papà giocherellone iniziò a distaccarsi da me. In compenso mia madre, incapace di fare una carezza (passò l'infanzia sotto le bombe e fu presente a Recco quando la rasero al suolo), si occupava di me per ogni cosa, persino per pulirmi il sedere dalla cacca... anche a 5, 6, forse 7 anni (sic!). Io ero estremamente obbediente allora. Forse solo debole. Quando ci trasferimmo in periferia mi ci volle molto tempo per uscire di casa sebbene nella piazzetta ci fossero un sacco di bambini che giocavano. Ed eravamo tutti "nuovi" perché erano case popolari appena assegnate a giovani famiglie (quasi tutte con figli). Giù in piazza c'erano bambini e bambine. Talvolta si giocava insieme, più spesso no. Io imparai ad adorare a giocare a calcio ma in una piazzetta grande 1/4 di un campo di calcio a 7. Però ero bravino. Mi piaceva fare i gol, ma la mia specialità era alla "Cassano", fare i passaggi smarcanti. "vedevo" il gioco. Quando, poche volte, perché i miei non volevano in quanto distante (1 km), andai a giocare in un campo a 7 vero, i miei limiti di "grissino" fragile emersero con forza. Allora si giocava con palloni di cuoio pesantissimi anche tra bambini e io mi facevo male a calciarlo e se provavo a darci di testa dovevo essere ben attento di colpirlo bene e in aria, altrimenti che dolore alla cervicale!!! Ricordo una volta che mi stavo lanciando all'attacco dietro una palla ma arrivò    prima un mio compagno di classe che giocava nella squadra avversaria come difensore: arcigno e "ben messo" fisicamente. Tirò con tutte le forze per allontanare la palla dalla propria area, affinché io, agile e preciso non facessi gol. Io ero al massimo a 20 cm di distanza e presi quel pallone di cuoio calciato a tutta forza in piena faccia. Per un secondo persi i sensi, anzi una frazione di secondo perché riuscii a riprendermi prima di cadere a terra, ma il bruciore lo ricordo come fosse accaduto ieri e non 45 anni fa circa. 
Bambole? Le ignoravo totalmente. Con le bambine giocavo a "pampano" o a "palla 10" con piacere, ma nulla che fosse un "gioco di rulo" al femminile mi interessava. Niente cucinine, forni, bambole o barbie. Non erano proprio nel mio orizzonte. Del resto, di quei tempi, i giochi per "maschietti" erano fantasiosi, mentre il 99,9% dei giochi per bambine erano una imitazione, una sorta di preparazione all'essere donna e mamma da adulte. Noi maschi non giocavamo a fare l'impiegato o l'ingegnere, non esistevano quei giochi, mentre le bambine giocavano quasi sempre a "quel che sarebbero state da grandi", cioè casalinghe e madri. Ma che gioco è, mi chiedevo quando le guardavo intente a imitare le loro mamme. Per me imitare il mio papà non sarebbe stato un gioco ma una tortura....  e anche imitare la mia mamma paranoica del pulito non sarebbe stato da meno. 
Questi bambini-ragazze del documentario invece ignoravano trenini (che adoravo), piste automobilistiche ecc. Hanno anche fatto vedere un filmato di due gemelli, una femmina e un maschio transgender, girato ad un compleanno quando erano piccoli in cui lui ignorava una specie di "pista di automobiline" camminandoci sopra e si concentrava con gli occhi a guardare i vestitini che apriva sua sorella... Così eloquente... e vederlo è diverso che sentirlo raccontare... Possibile io niente? E poi io adoravo le bambine, una in particolare, Cristina, che era l'emblema della femminilità fatta "cucciola". Caratterialmente era "un maschiaccio" ma fisicamente era perfetta di una perfezione che mi sconvolgeva fino alle viscere. La mia passione iniziò dai 7 anni fino ai 12.. quindi anche prima della mia pubertà. Non sognavo, con lei, chissà quali giochi erotici, ma che fosse la mia fidanzata. Immaginavo baci (come li vedevo nei film) ma soprattutto il poter dire: "Cristina è la mia fidanzata". Si perché Cristina piaceva a tutti i "maschietti", ma dato il suo disinteresse per tutti noi, gli altri miei compagni si "iniziavano" alla simulazione della coppia con altre bambine, mentre io restavo fedele al mio modello ideale e neppure mi ci potevo vedere con un'altra bambina... Oggi posso dire che lei era l'unica "Barbie" che desideravo, cioè l'unico "feticcio" per accompagnarmi a quella femminilità che non mi apparteneva. Lo posso dire in base a comportamenti adulti con le donne che portarono a frequenti "disastri" di coppia. (io ho avuto una 50ina di storie dall'adolescenza ad oggi ma - fino alla mia consapevolezza tardiva 39enne - queste storie duravano poco e finivano secondo un clichee abbastanza ripetitivo). 
Intorno ai 7-8 anni la mia pediatra, di fronte alla mia fragilità costituzionale che aveva resistito ad ogni forma di "ricostituente", decise, e ne parlò con i "miei" (ma in mia presenza e io capivo di più di quanto pensassero gli adulti, cosa che accade sempre quando gli adulti parlano in presenza di bambini che - pensano - "non capiscano") di farmi fare una breve cura a base di steroidi anabolizzanti. Spiegò loro che questo avrebbe potuto anticipare la pubertà e che avrei potuto aumentare i peli nel corpo e nel viso. 
Non ricordo di avere odiato una persona (e ne ho odiate, lo giuro!) tanto quanto quel farmaco che, nella mia memoria, ha un nome che inizia per "W" (o finisce o ce l'aveva in mezzo?) ed aveva una scatola azzurra. 
Lo odiai subito ma lo presi. Manifestai ai miei la mia contrarietà che contò come il classico "2 di picche" a briscola. 
E fu così che dopo pochi mesi mi venne una copiosa peluria sotto i baffetti. E questi li ho odiati più del farmaco. Una vergogna che non riuscivo a sopportare. «li taglio». «ma se li tagli diventano barba vera e propria». Ero incastrato.  La pubertà non fu un piacere ma un vero e proprio abbandono definitivo della neutralità fisica infantile.
Io volevo rimanere bimbo e non occuparmi del mio "gender" o essere obbligata ad occuparmene dai cambiamenti del farmaco e dell'età che cresceva. Peraltro mi erano venuti i baffetti ma ero rimasto "grissino" come prima....

Ma oggi mi chiedo quale differenza separi me, che ho transizionato a 39 anni e questi bambini con una chiarezza del loro gender così assoluta (già vivendo almeno da un paio di anni nel gender sentito).

Del resto il mio unico compagno uomo è un ex trans "FtM" e ricordo che lui mi raccontava che non ricorda di avere mai avuto un pensiero che non fosse di sentirsi maschio e che quindi si sentiva maschio da quando ha ricordi. Maschio sia di genere sia di ruolo.

Io invece non amavo i giochi femminili ed ero attratto dalle bambine (poi ragazze e donne). 
La domanda che mi pongo è: non mi sentivo bambina perché non aderivo agli sterotipi femminili, o quegli stereotipi non mi interessavano perché non mi sentivo una bambina? E, inoltre, mi sono, al contrario mai sentita orgogliosa d'essere maschio in età infantile? A questo so rispondere: mai.
Se mi fossero piaciuti i maschietti e i giochi femminili mi sarei più facilmente sentita femmina già da piccola? E si può arrivare a rimuovere il fatto di sentirsi bambina proprio perché non ti piacciono i maschietti o i giochi femminili?

E' insomma possibile nascere maschi, avere un'identità di genere femminile ma ruoli di genere (quelli infantili almeno) maschili e orientamento affettivo verso le femmine?

E se può accadere, come e quanto e quando puoi affermare di sentirti donna pur amando altre donne e avendo interessi che allora erano solamente maschili? In quei casi è più facile "affermare" la propria identità di genere o rimuoverla inconsciamente per poter continuare a giocare a pallone (quando a pallone le bambine non giocavano mai) e sognare "fidanzatine"? 
Quanto deve essere forte la "distonia" per affermarla invece che rimuoverla, quando affermarla avrebbe significato "uccidere" (nella mia testa) i miei genitori per il dolore?  E poi neppure sapevo che si potesse realmente cambiare genere e quindi preferivo cercare di essere un bravo maschietto (fallendo) piuttosto che sognare cose che non esistevano (nella mia ignoranza).

Se fossi nata negli anni 2000, dove di transgender si parla, dove è acclarato che esistono anche transgender lesbiche e dove le donne nate tali (e anche le bambine) non sono più costrette a ruoli e interessi determinati per essere esclusivamente femminili, sarebbe emerso prima il mio disagio? Perché un disagio l'avevo. Non sorridevo mai e mi sentivo infelice e incompreso nella mia sensibilità (castrata dalla famiglia perché troppo da "femmina" e quindi tenuta in segreto).
Certo che se è possibile (e io credo che lo sia) avere un sesso maschile, un'identità di genere femminile con ruoli di genere "non femminili" e orientamento sessuale non conforme ai diktat della società (a quei tempi neppure sentivo parlare di omosessualità, da bambino, figuriamoci che fosse possibile "cambiare genere"), diventa difficile comprendere che il tuo disagio è quello. Da bambini poi... O da adolescenti quando il testosterone inizia a far diventare predominante il pene rispetto al cervello... Io mi sono "ammazzata di seghe" ma ricordo anche quanto stessi a disagio subito dopo. Era come una pressione insopportabile a cui dovevo togliere il tappo ma quando usciva lo champagne io non ero per nulla felice. Però mi piacevano le ragazze e immaginavo che se io fossi stata donna sarei stata di fatto obbligata ad accompagnarmi agli uomini. 
Era un altro mondo quello del 1960-80, rispetto al 2000.
Già qui entro in un'età complessa: l'adolescenza e i primi anni adulti. 
Un giorno, intorno ai 14 anni, casualmente scopro tra delle riviste porno trovate in casa di un tipo, una che fa vedere foto di trans... Mi si infiamma immediatamente il cervello: sento un'attrazione fatale per queste signore. Sono donne nate maschi e che sono nate maschi si vede abbondantemente perché sono rigorosamente non operate ai genitali. Capisco, vedo per la prima volta che transizionare è possibile. La cosa mi agita ed eccita, ma ben presto sarebbe passato tutto perché io non ero "tipica".
A Genova c'è il "ghetto", un incrocio di carruggi da decenni dedicato alla prostituzione trans. Le ragazze hanno comprato "i bassi" (ex negozi) e hanno le lucine rosse e verdi per indicare se sono disponibili o meno. Sono prostitute. Io non ho la più pallida idea di come fare a conoscere diversamente delle persone trans e sento che ho un bisogno vitale di conoscerle... parlar loro, sì, ma soprattutto "respirarle" per capire se e quanto un diapason risuonasse in me. Iniziai con il diventare cliente di qualcuna e, dato che ero giovanissimo (minorenne), molte di queste trans prostitute non prendevano ormoni e quindi avevano libido e relativi genitali "al maschile" e apprezzavano i maschietti, erano spesso loro a cercare me, passando davanti ai "bassi". La prima volta che andai fui passiva con una di loro. La mia prima esperienza passiva che mai avrei concesso ad un uomo. L'intimità fisica con un uomo mi ricordava peli, sudore acre, pelle con pori larghi e l'odiosissima barba con cui fare i conti. Dell'uomo non mi piaceva quasi nulla, ma nella mia testa, quel che più non mi piaceva era l'idea del loro odore e dei loro peli (l'idea di leccare pelle pelosa non era eccitante ma un forte deterrente e allora i maschi non si depilavano affatto :D). 
Per arrivare a 39 anni prima di capire e capire per un evento casuale, bisogna averne fatta di resistenza. 
Non sto a raccontare ora la mia vita adulta maschile se non per un aspetto. Mi accompagnavo a donne ed ero io a guardare le vetrine degli abiti femminili, dei trucchi ecc. Per far loro regali o per sognare di vederle vestite secondo i miei gusti (un po' volgari allora a parte che ho sempre avuto un certo feticismo per la minigonna). Compravo il catalogo "Postalmarket" ma guardavo solo abiti femminili. Spesso passavo lunghi periodi senza una compagna e in quei momenti pensavo: «questo lo compro e lo regalerò alla mia prossima ragazza» ma poi la logica mi diceva che non potevo immaginare quale sarebbe stata la taglia della mia prossima compagna e soprassedevo con il male al cuore. Le mie compagne cercavo sempre di vestirle come piaceva a me e più erano belle e più mi piaceva accompagnarmi a loro per strada  e più le guardavano e più io ci "sballavo". Mi dicevo: «fanculo uomini di merda che mi avete sempre deriso, ora questa ce l'ho io e voi sbavate». Si perché non ero diventato, crescendo, un gran "figo" ma le donne le sapevo conquistare con una certa facilità. Mi bastava avere la possibilità di parlare loro e guardarle negli occhi. Cadevano innamorate facilmente con loro complimenti lusinghieri: «sei l'unico uomo che ho incontrato che mi capisce». Dopo qualche mese e, di norma, una sessualità problematica proprio nella penetrazione attiva (salvo un paio di eccezioni troppo lunghe da spiegare), il «tu mi capisci, che bello», diventava un «tu hai una psicologia molto femminile» e pochi mesi dopo ancora, il giorno che decidevano di lasciarmi, terminavano con un qualcosa che potrei facilmente riassumere con: «per carità, sei una persona splendida, ma tu mi capisci troppo, mi leggi troppo dentro e io ho bisogno di un uomo anche perché così posso avere i miei angoli dove lui non arriverà mai». In altri casi restavano più sul vago (ma sempre, immancabilmente, con una sola eccezione, dicendomi, durante la relazione della mia psicologia femminile) cose tipo: «sei una bella persona ma io ho bisogno d'altro». «D'altro? D'altro cosa?» e finiva sempre che mi mancavano le classiche qualità che una tipica donna etero si aspetta da un tipico uomo etero: protezione, senso di sicurezza, volitività. Amen. 
La cosa buffa - e faccio un attimo un lungo salto in avanti - è che dopo la mia transizione e prima di ammalarmi, quando cioè vivevo al femminile e facevo militanza per i diritti LGBT, a Genova, gli amici gay mi avevano soprannominata "caterpillar" per la mia determinazione e perché quando partivo non mi fermava nessuno. Può sembrare buffo che una qualità tipicamente maschile io sia riuscita ad esprimerla solo da donna e non come maschio, ma è il "disagio" o l'"agio" a dare sicurezza e a fare uscire il vero carattere delle persone. L'agio tende a far esprimere il lato migliore di sé, il disagio per niente (e me ne accorgo da quando il disagio è diventato legato alla salute e non più al gender... ). 
Per tutta la vita al maschile quindi sono stata un vampiro che si nutriva della femminilità delle proprie compagne e, ovviamente, le storie non potevano durare molto. Involontariamente tendevo a manipolarle per farle assomigliare alla donna che avrei voluto essere io. Consapevolmente? Neanche per sogno!!! Tutte "robe" che ho capito dopo.. dopo "l'incidente" che ha rappresentato l'insight definitivo sulla mia consapevolezza di essere donna. A 39 anni appena compiuti e non a 4 anni. E non è che la cosa sia indifferente per svariati motivi: capire da adulti è un capire diverso perché consente meglio di valutare come si sta al femminile rispetto a prima. Con la mia storia atipica, con la mia psicoterapeuta io volevo sempre lavorare su questo: posso definirmi transgender quando amo le donne, ho sempre giocato a giochi "maschili" e anche da adulta ho zero interessi per le cose tipicamente femminili (cucito, tendine, uncinetto) tranne il vestire ed il make up? Le ho scritto paginate e paginate di "robe" dove distruggevo logicamente il mio essere transgender (quando vivevo già da un anno almeno  24/7 (gergo che indica 24 ore al giorno, sette giorni su sette) al femminile ovunque, ma poi, al di là di ruoli e orientamenti, mi bastava (allora avevo ancora un po' di peli sulle gambe e dovevo fare la ceretta spesso) che rivedessi le mie gambe con i peli per avere una sensazione così netta, così particolare da sembrare "fuori di testa": io non le riconoscevo più come mie. Mi sembravano gambe altrui attaccate a me. Insomma laddove tutte le logiche relative alle definizioni ufficiali di transgender (o con Disturbo dell'Identità di Genere, secondo medicina) scricchiolavano, laddove tutti i miei ragionamenti di difformità dal modello trans mi portavano a dire: «forse non sei trans, forse hai solo fallito come uomo e hai una sensibilità che da uomo non riesci ad esprimere ma "farsi donna" è scappare da una identità maschile particolare», contemporaneamente arrivava la risposta della mia percezione corporea. Era sufficiente guardare una mia "vecchia" foto anche di pochi mesi precedente alla transizione per "non riconoscermi più" come "soma" giusto per la mia anima. Un qualcosa di difficilmente spiegabile perché non è qualcosa che appartiene al "gusto" (mi piaccio di più ora che prima) o ai ruoli di genere (preferisco vivere da donna che poi è vivere da trans quindi con ben pochi vantaggi sociali) ma proprio alla percezione di sé. Comprendo l'obiezione che si potrebbe dire: «hai vissuto per quasi 40 anni con quel corpo e come potevi non sentirlo più tuo dopo meno di un anno di terapia ormonale che ti ha femminilizzato?» Credo che l'unica risposta comprensibile a tutti debba rifarsi ad una parabola che raccontava Osho. Se ad un pesce chiedi cosa sia l'acqua, esso non saprà descriverla fino a che, un giorno, non verrà tirato fuori dalla stessa ed esposto all'aria. Solo in quel momento avrà la consapevolezza di cosa sia l'acqua. Il mio caso funziona al contrario: io ero una sorta di pesce dotato di "labirinto" - organo presente in qualche razza di pesce (i "Betta Splendens" ad esempio) e che permette di respirare anche l'aria, ma adatto a respirare l'acqua - che viveva all'aria e non pensava di potersi tuffare in mare e respirare 1000 volte meglio di quanto non respirasse l'aria. Un giorno sono caduta dentro l'acqua e mi sono resa conto di quanto era meglio vivere respirando veramente e, sebbene fossi stata in grado di sopravvivere respirando aria, ora mai più l'avrei voluta respirare. E quella che chiamavo "vita", dopo aver iniziato a vivere nell'acqua, non mi sembrava vita ma sopravvivenza. Al contrario dei bambini del documentario io non ho avuto la "fantasia" sufficiente di immaginarmi bambina (non a caso io non leggevo le fiabe dove tutto può accadere) e, nato maschio, condizionata ad esserlo da tutto e tutti, nonostante sentissi di non "respirare bene", che sentissi la lotta dentro il mio cervello, conoscevo solo quella realtà e in quella ho tentato di vivere per 39 anni. Respirando male e non capendo che la lotta dentro il mio cervello (che mi portò ad una depressione primaria dai 18 ai 26 anni) era quella tra le mie predisposizioni femminili cerebrali e l'enorme quantità di testosterone che vi circolava.
Quando iniziai la terapia ormonale io fui un caso particolare perché dopo 10 giorni avevo già un accenno di seno. Una cosa rara e rarissima per chi la inizia alle soglie dei quaranta. Eppure se mi chiedono quale è stato il primo segno che ho visto invertendo la prevalenza ormonale da testosterone a estrogeni, non rispondo il seno ma la pace nella mente, nella cosiddetta anima, tutta roba che sta nel cervello. Finalmente sentivo che il mio cervello non era più avvelenato da tossine. Questo il primo "sintomo": una pace mai conosciuta prima, mai neppure immaginata possibile. Quindi una gioia pazzesca. Solo dopo un anno ho iniziato a pormi delle domande se io corrispondessi alla definizione di transessuale/transgender. Dopo un anno che vivevo donna (non è un errore di battuta, io "vivevo donna", non "da donna") ed in cui l'euforia iniziava a trasformarsi in serenità che consentiva anche di riflettere su quanto avevo fatto. Per il primo anno fu tutto un correre avanti senza fermarsi di fronte a nessun ostacolo (e ce ne sono a centinaia se transizioni). 
Ho vissuto, prima dell'aneurisma, anni meravigliosi: purtroppo solo 4 ma che scambierei per tutto il resto della mia vita senza pensarci 2 volte. Quei 4 anni valgono più dei 39 precedenti ed anche di più dei quasi 8 successivi dove il "male" ha rovinato, in parte, la gioia.
Eppure oggi, guardando quel documentario, io ho sofferto e sofferto tanto. Perché sono felice di "esserci arrivata" alla fine, ma mi sono rovinata tutta la mia gioventù e provo una vera e genuina invidia per chi oggi, bambino, può permettersi - anche se con gran fatica - di rivelarsi senza la certezza di essere abbandonati dalla famiglia ed essere costretti ad autoemarginarsi nella prostituzione, come era ai miei tempi. In più prostituta con uomini mentre io ero lesbica. Ecco perché l'entusiasmo di scoprire sui giornaletti le "trans" si spense presto: "ai miei tempi" transizionare significava perdere tutto e battere e se non eri etero venivi emarginata anche dalle altre trans".
Ecco questo rimpianto è l'unico di tutta la mia vita. Ogni volta che ho commesso errori (e ne ho fatti tanti) mi sono sempre perdonata dicendo che in quel momento credevo di fare il bene. Ebbene questa volta non ci riesco. Non riesco a perdonarmi di non avere capito MOLTO PRIMA. Non riesco a perdonarmi di essere cresciuta negli anni '60 senza internet. Perché chissà, quando mi travestivo e poi obliavo (dopo qualche anno) il ricordo (mi è risuccesso in età adolescenziale di travestirmi), allora pensavo d'essere una sorta di mostro, oggi mi basterebbe internet per capire che come me c'erano migliaia, centinaia di migliaia di adolescenti trans. Non è un caso che comunque è stato proprio internet a introdurmi alla consapevolezza di non amare le donne e le trans per desiderio di averle, ma per desiderio di essere. Non bastò. Dovette comunque poi accadere un "incidente di percorso" casuale perché improvvisamente, in molto meno di un secondo, capissi quel che non avevo capito per 39 anni. Incredibile ma vero. 
E solo da donna ho imparato ad amare le donne senza vampirizzarle.
Se Aladino uscisse da una lampada e mi proponesse uno scambio: capire la mia realtà e iniziare la transizione oggi (come adolescente, quindi nata negli anni 2000) e morire all'età che ho oggi (55 anni), io non esiterei ad accettare. Quel rimpianto è inguaribile più di quanto lo siano le mie tante piccole e medie ischemie cerebrali o la fibromialgia o la valvola aortica meccanica. 
Su questo tema ci ho scritto una poesia molto amara quando la scrissi e, dalla gioia d'essere donna, guardando le ragazzine su un bus, ho sentito di "odiarle" mio malgrado, contro ogni mia volontà, così come non riesco a non invidiare le adolescenti transgender "già fatte e finite" e che si godono la loro gioventù che io ricordo come una pena infinita, anzi un oblio infinito.
La poesia la scrissi un giorno che dovetti fare un esame che prevedeva una bella dose di Valium per rilassare sia il sistema nervoso, sia la muscolatura interna ed infatti si chiama 
Valium II (L'invidia) 
(pubblicata nel libro "Perpetue Rifrazioni©")
e che ripubblico qui senza permesso di riproduzione, salvo richiesta esplicita a mirella@mirellaizzo.it

VALIUM II (L'INVIDIA)

So che sei ciò che io mai sarò
con la naturalezza che mai avrò
ragazzina…
Inconsapevole dell’aura di femmina
che ti avvolge come alone luminoso
e mi abbaglia e ferisce occhi e cuore..

Io che la mia aura inganna uomini e donne
vivo nell’artificiale sforzo di mantenerla accesa
sapendo quanto sia facile che si spenga
lasciandomi circondata di un buio
che maschio non è e neppure femmina…

Vi guardo ragazzine
io rapita dal vostro profumo di donna
e ferita d’angoscia per ciò che per voi è natura
e per me è lotta dura di affermazione…

Eppure io sarei identica a voi nel cuore
se fossi senza passato e senza storia,
e né retaggi ed educazione
avessero ancorato un’identità contrapposta
al mio corpo inadeguato

Mirella Izzo, autobiografica
Genova domenica 5 febbraio 2012

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Grazie per aver raccontato la tua storia. Mi ha aiutato a riflettere sulla mia. Andrea

Mirella Izzo ha detto...

Prego Andrea.. .Ben lungi dall'aver raccontato la mia "storia" che è davvero - per alcuni tratti - un thriller, mi fa piacere che queste riflessioni sul gender ti siano utili. Mirella